mercoledì, aprile 25, 2007

Stefano "Pipu" Mazzanti


Tutto sua madre...

lunedì, aprile 23, 2007

Il Pandoro di Guido - Prefazione e Postfazione dell'autore
Prefazione

Tutto nacque intorno al 1997, quando io stesso e soprattutto Maurizio, l’ex fidanzato della nostra cara e storica amica Vittoria from Bologna, fummo investiti del privilegio senza le responsabilità (condizione invidiabile) di gestire il mitico Hiroshima Pub nella sua veste estiva (che fu poi tristemente l’ultima).
Mauri infatti era e penso sia tuttora uno dei più accreditati disk jockey d’Italia, con serate spese nei maggiori locali della riviera romagnola e toscana.
Di quel ragazzo tra l’altro conservo un ricordo splendido. Il suo adipe pronunciato non gli impediva di regalare simpatia e voglia di vivere a chi lo circondava, ed ancor oggi con il nuovo fidanzato della Vitto, un palestrato senza cervello, ricordiamo con viva nostalgia i bei tempi andati.
Ma questa è un’altra storia.
Nella nostra brigata annoveravamo una barista molto qualificata di nome Sabrina. Molto alta ed altrettanto appariscente, oltre ad un’ampia e consolidata esperienza dietro il bancone poteva fregiarsi dell’ambito ruolo di compagna di Guido, uno dei miei mille fratelli anch’egli afflitto dal morbo del bicipite pazzo.
Nei rarissimi momenti di stanca della serata ci riunivamo tutti intorno al bar per scambiare due battute ed aggiornarci sulle rispettive vite, e proprio durante una di queste pause successe l’evento.
Sabry ci raccontò un episodio di vita vera, capitatole la sera precedente, cui noi stentammo ed ancor oggi stentiamo a credere. La storia ci parve talmente inverosimile che ognuno di noi, come i vecchi lupi di mare, si sentì autorizzato da allora a tramandarla per via orale facendo qualche piccola personalizzazione, senza con questo stravolgerne la sostanza.
Tanti sono gli anni ormai trascorsi e tante le leggende create che nemmeno io ricordo quale fosse l’originale.
Qui di seguito riporterò quindi fedelmente i racconti ascoltati direttamente dalle mie orecchie, con l’unico scopo di restituire dignità ad una sì preziosa reliquia. Sono sette, uno per ogni giorno della settimana, ma non hanno la pretesa che tra loro si celi la verità. Chiunque, leggendo questo libro, riconoscesse tra le varie versioni descritte quella originale è pregato di contattarmi, per restituire finalmente all’umanità un patrimonio per troppo tempo sepolto.
Buona lettura e grazie per la collaborazione.

Dedicato a Guido, senza la cui esistenza tutto ciò non sarebbe stato possibile (e credibile).


Ringraziamenti

Tutta la mia gratitudine ai ragazzi della cumpa che mi hanno caricato al fine di intraprendere questa ardua scalata.
Tante grazie agli sponsor che hanno generosamente partecipato alla concreta realizzazione del nostro sogno.
Un sentito pensiero anche ai mille lettori e correttori di bozze che si sono adoperati affinché questa non fosse solo l’uscita di un libro, ma un evento epocale nella storia della letteratura italiana.

Il Pandoro di Guido - Capitolo 7

Il Pandoro di Guido
Capitolo 7


Quell’anno era molto nevicato e già i primi di dicembre le strade delle nostre colline erano pressoché impraticabili.
Era per me un momento estremamente importante dal punto di vista professionale, in quanto dopo anni di difficoltà e porte chiuse in faccia ero riuscito a pubblicare i miei lavori, una serie di brevi saggi sugli argomenti più disparati.
Qualcuno potrebbe obiettare che il fatto che mia madre di nome faccia Maria Angela Bignami possa in qualche modo avermi favorito, ma la titolare della più famosa collana di pubblicazioni riassuntive per la scuola e non evidentemente aveva trovato interessante il mio lavoro. Lo dimostra il fatto che da anni le sottoponessi i miei manoscritti, ma sistematicamente li rispediva al mittente con un solo, arido bigliettino:”Puoi fare molto meglio!”.
Questa era la volta buona, ed ero talmente contento che non avevo esitato a spendere i miei unici ventiduemila euro per affittare un casolare ristrutturato nel bergamasco per una presentazione in pompa magna.
L’unico assente, per giunta giustificato, era stato il signor Mondatori, in quanto impegnato negli Stati Uniti con cose ben più importanti: il Superball.
Ovviamente volevo che tutta la famiglia fosse presente ad una serata così speciale, così avevo inviato un invito accompagnato con biglietto aereo a tutti.
Mia mamma, l’unica che continuavo a vedere e sentire regolarmente, era venuta in auto (la solita popolana!).
Mio babbo invece era arrivato dall’Australia, accompagnato da una cangurina di venticinque anni conosciuta durante il lancio della sua ultima linea di abbigliamento per amanti di mentine, Polo, il cui successo era ormai planetario. Sicuramente lei lo amava, ma anche il suo gruzzoletto contribuiva all’attaccamento.
Il Boss, come al solito in ritardo, era arrivato due minuti prima che iniziasse il banchetto.
“Scusa tanto, ma non ho trovato nessuno a sostituirmi”, si era giustificato, sapendo benissimo che nessuno gli avrebbe creduto. Era uno dei pochi ad essere riuscito a coniugare il fancazzismo alla genialità, brevettando un tagliaunghie per piedi a braccio telescopico per evitare dolorosi piegamenti che solo quell’anno gli aveva fruttato otto miliardi, e viveva sotto una palma ai Carabi contando i suoi continui incassi.
“Ok, ci siamo tutti!”.
Ma non era vero. Non avevamo il coraggio di affrontare la realtà, di ricordare il doloroso passato.
Guido, il primogenito, l’orgoglio di mamma e papà, studente modello e convinto paracadutista presso il ventitreesimo battaglione Nembo della Folgore, a venticinque anni aveva avuto la folgorazione ed in piena crisi esistenziale aveva deciso di cambiare sesso.
La reazione della famiglia era stata forte e drammatica, e per non creare ulteriori imbarazzi era scappato dall’Italia e da allora non avevamo saputo più nulla.
Proprio durante la mia conferenza stampa, tra un autografo ed una domanda dei tanti giornalisti intervenuti, arrivava dal fondo della sala una ragazza appariscente, sconosciuta ma familiare, della quale dopo pochi secondi avevo riconosciuto lo sguardo.
Guido.
Mi ero subito girato verso mia mamma, che mi aveva poi spiegato di essere sempre rimasta in contatto con lui, che si era trasferito in Germania ed affrontato da solo il calvario della metamorfosi definitiva.
La fortuna poi gli aveva arriso e con il tempo aveva ritrovato serenità, un buon lavoro impiegatizio ed un fidanzato, con il quale conviveva da diverso tempo senza segreti.
Quando l’ultimo invitato se ne era andato eravamo rimasti lì ad affrontare nuovamente la vecchia situazione, ma forse per il tempo, forse per i tanti rimorsi che ci portavamo dietro, sembrava che avessimo sempre avuto una sorella e che nessun problema avesse mai minato la famiglia.
Guido-Teresa era venuta accompagnata da Gunter, un omone enorme e con un viso simpatico, che si sforzava con accettabili risultati di parlare italiano.
Avevamo deciso di cenare tutti insieme al casolare, dato che era rimasta tanta roba dal rinfresco, ed al momento del brindisi la mamma se ne era uscita con la sorpresa: un pandoro.
“Vi ricordate quanti se ne mangiavano tutti insieme per Natale?!”.
Visibilmente commossi ne avevamo presa una fetta a testa, divorata con voracità e ripensando ai bei tempi andati (forse tornati?), con la mamma che ci tranquillizzava al grido di “Ce n’è quanto ne volete, ho svaligiato la pasticceria!”.
Si sa che le donne sono più golose, ed evidentemente l’operazione di Guido-Teresa era riuscita bene, perché non smetteva più di mangiare.
L’unico che non poteva assaggiare era mio babbo, a causa del diabete, ma aveva di che consolarsi tra le abbondanti poppe della sua prosperosa compagna.
Al mattino seguente avevamo temuto il peggio. Guido-Teresa era entrata nella stanza dei miei genitori gridando a squarciagola “Sono incinta, sono incinta!”, e loro terrorizzati cercavano di capire a quale miracolo si riferisse di preciso.
Aveva allora spiegato loro che dalla notte provava insolite e fortissime nausee, ed era certa di poterle attribuire al bombardamento ormonale subito negli anni.
Mia mamma, pensierosa, dopo cinque minuti di silenzio totale, se ne era uscita con un’illuminata teoria:”Sei sicura? Non sarà un altro problema?”.
“Mah, non vedo cosa ci sia stato di diverso, anche se ieri sera ho mangiato tanto. A meno che non sia stato il pandoro che, per quanto buono, dopo un po’ stomaca!”.
“Va be’, ma ti ho vista io mangiarne non più di due fette. Ad un donnone come te cosa vuoi che facciano?!”.
“Ma sai, questa notte mi è venuta fame, mi sono alzata e non ho trovato altro, allora ho aperto un pandoro ancora confezionato”.
“E quanto ne hai mangiato?”.
“Tutto!”.

Il Pandoro di Guido - Capitolo 6

Il Pandoro di Guido
Capitolo 6


Eravamo appena arrivati a Lucca, città da noi molto amata e nella quale tornavamo almeno una volta all’anno dal 1979. La nostra famiglia, di tradizione circense, aveva imparato a vivere in un super-caravan, una sorta di villa ambulante con ogni confort.
Mia mamma, nata con la passione ed il fisico da contorsionista ma ormai degna solo di interpretare una credibile donna cannone, teneva le redini del baraccone.
Erano ormai passati dieci anni dalla separazione professionale da “Il circo di Moira Orfei”, causata non già da divergenze organizzative ma da una tragedia. Le cose andavano da Dio ed eravamo ai tempi (e penso ancor oggi) l’unico circo itinerante in grado di mostrare lo spettacolo del domatore di belve feroci. Noi usavamo le tigri asiatiche albine, la cui pigmentazione rendeva già di per se lo spettacolo unico, senza tralasciare le incredibili capacità ed il sangue freddo di mio padre. Massimo il magnifico infatti era un nome notissimo nell’ambiente, e solo l’anno prima aveva avuto l’onore di esibirsi all’interno della Piazza del Cremino.
Il numero era ormai consolidato e la sua esperienza tale da fare spesso sottovalutare la pericolosità insita sempre e comunque. Le belve erano selezionate da lui stesso in mezzo ad un numero elevatissimo di animali, ed il fatto di ammaestrarle fin da cuccioli forniva un ulteriore elemento di serenità.
Ma sempre belve rimangono.
Quella sera avevamo il tendone pieno come in poche altre occasioni, il pubblico lucchese ci aspettava da mesi e non aveva tradito le aspettative. Prima i pagliacci, poi eravamo entrati Guido ed io per il numero dei trapezisti, infine il Boss per il terrorizzante show dell’uomo-scimmione.
Mancava quindi solo il numero di chiusura, il pezzo forte che tutti i circhi del mondo c’invidiavano. Mio padre era troppo carico e quella sera senza alcun preavviso si era deciso a tentare un numero nuovo ed ancor più incredibile: infilare la sua testa tra le fauci delle belve. Non solo lui non era preparato, ma soprattutto le tigri non erano state addestrate a farlo, ma il suo sangue freddo e la passione smisurata per il suo lavoro lo avevano trascinato.
Purtroppo era accaduto il peggio.
Da quel giorno ci eravamo persi di vista, incapaci di continuare in un mestiere che ci aveva tolto tanto.
Mia mamma si era data all’alcool (credo che per questa ragione fosse ingrassata tanto) cercando così di dimenticare. Invano.
Guido aveva seguito un amico in un progetto d’infanzia ed aveva aperto un ristorante in cui servivano solo clientela mancina: apparecchiatura invertita, posate su misura, brocche personalizzate. L’attività fruttava molto, anche perché i destri amanti del rischio sfidavano la sorte, e se smascherati venivano sonoramente randellati dallo chef in persona.
Il Boss invece era rimasto diciamo così nel ramo. Con lo pseudonimo di Bango l’orango era diventato campione italiano di wrestling, e da anni aveva tentato con successo la via del professionismo emigrando negli Stati Uniti, dove la lotta libera è religione.
Terribilmente scosso dal lutto familiare io mi ero invece iscritto alla facoltà di psicologia a Bologna, laureandomi brillantemente ed in breve tempo ed esercitando quasi subito. Nel mio studio, aperto a tutti e con prezzi popolari, privilegiavo l’educazione infantile. Famose le mie ricerche e pubblicazioni, culminate con il saggio titolato “A caval donato non si guarda in bocca,… figurati alla tigre!”, che avevano fatto il giro del mondo.
Un mese prima di quel fatidico giorno tutti noi,ognuno all’oscuro degli altri, avevamo ricevuto un bigliettino da Moira che ci convocava per il giorno e l’ora x a Lucca per un fantomatico rimborso di una misteriosa assicurazione sulla vita stipulata in gran segreto da mio babbo e stranamente liquidata dopo esattamente dieci anni dalla sua scomparsa.

“Sono contenta di ritrovarvi tutti insieme, spero di non avere fatto un torto a nessuno”.
Eravamo emozionantissimi e felici di ritrovarci,anche perché è solo per pudore che non avevamo trovato il coraggio per fare ciò che aveva fatto lei.
“Massimo è ancora nei nostri cuori, ed ancor più nella memoria del nostro affezionato pubblico. Regaliamo loro una serata speciale in ricordo del grande domatore!”.
Detto, fatto.
Certo non eravamo più in forma ed atletici come un tempo, ma la folla ci era comunque vicina e l’impegna che avevamo profuso era comunque altissimo.
Si poneva però il problema del numero di chiusura, ed avevamo escogitato un espediente efficace e divertente.
“Signore e signori, tra breve il momento che tutti quanti aspettavate: le belve del circo. Vi prego di considerare che le nostre amate tigri sono ormai vecchierelle, il tempo passa anche per loro, e non possiamo più infilarci dentro con la testa; sono ormai sdentate e rischierebbero di soffocare in caso di morso. Per mantenere la spettacolarità l’abbiamo sostituita con un pandoro, un morbidissimo pandoro che di questi tempi campeggia sulle vostre tavole”.
Le tigri però sono diabetiche e necessitava scoprire prima se ne esisteva uno adatto alle nostre esigenze. La mamma allora la mattina precedente lo spettacolo ne aveva comprati nove, uno per marca, ed aveva pregato Guido di assaggiarli in qualità di esperto e consigliarle quale utilizzare.
Alla mattina ci eravamo ritrovati tutti per colazione e con buon appetito, tranne Guido che ogni quattro secondi emetteva squassanti rutti.
“Accidenti, cerchi di imitare il ruggito delle belve? Complimenti, ti riesce bene!”.
“Ma no, mamma, è che ho fatto quel test che mi avevi chiesto tu”.
“Allora, che ne pensi?”.
“Motta ottimo, Paluani così così, ma il solito Conad è sempre il migliore. Peccato però che dopo un po’ stomachi”.
“Scusa, eh, ma quanto ne hai mangiato?”.
“Ma sai, era proprio buono, una fetta tira l’altra, ed alla fine l’ho mangiato tutto!”.

Il Pandoro di Guido - Capitolo 5

Il Pandoro di Guido
Capitolo 5

In ogni famiglia, anche la più rispettabile, c’è una mela marcia. E la mia non è sfuggita a questa regola.
I miei genitori, persone per bene ed onesti lavoratori, hanno dedicato la vita a noi tre figli, profondendo ogni sforzo economico ed emotivo per trasmetterci i reali valori ed i principi cardine per condurre un’esistenza serena ed armoniosa. Di cultura cattolica la mamma, laico di sinistra il papà, ma accomunati dal rispetto verso le persone e le istituzioni.
Mio fratello Boss, di qualche anno più giovane di me, trascorreva le sue giornate da studente universitario diviso tra la preparazione di un esame e l’insegnamento della chitarra, la sua grande passione, che lo distoglieva da tutto il resto.
Io lavoravo già da anni come rappresentante di una prestigiosa marca di calzature, e nonostante il delicato intervento che avevo subito l’anno precedente (sono stato il primo trapiantato al mondo a ricevere il l’emisfero cerebrale sinistro da un maiale, compatibile al 98% con quello umano, al 100% con il mio) godevo ottima salute. Anche la situazione familiare era positiva e mia moglie poteva beneficiare di un portafoglio sempre gonfio e di un marito sempre arrapato (per colpa del trapianto?).
Il fratello maggiore invece, Guido, aveva purtroppo imboccato la via sbagliata. Coinvolto in un giro poco chiaro era finito in carcere a Rimini gia sette anni or sono, con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e riciclaggio di denaro sporco. Sembra infatti che prove schiaccianti lo affiancavano ad una banda di origine albanese che si occupava di fare arrivare ignare ragazze in Italia per poi avviarle al marciapiede. I proventi venivano usati per smerciare cocaina.
I miei genitori non si potevano permettere un principe del foro, ma i giornali parlavano di una situazione talmente nitida che l’esito del processo era comunque scontato.
Da quel giorno non avevamo più voluto vedere nostro fratello, la nostra vergogna, e solo mia madre si recava periodicamente in carcere a fargli visita, portandogli saluti che noi non mandavamo.
Guido era ghiotto di pandoro e la mamma, per farlo almeno volare un po’ con la fantasia e consentirgli un Natale meno amaro, ogni anno gli portava verso il venti dicembre un bel Bauli farcito, con tanto di zucchero a velo, che i secondini lasciavano ormai passare senza nemmeno controllare. “Fattelo durare fino all’Epifania, sai che fino ad allora non potrò tornare. Mangiane una fetta al giorno e mentre lo fai pensa a casa”.
Poi si metteva immancabilmente a piangere e tornava a casa, dove la attendevamo con facce interrogative ma bocche troppo orgogliose per fare domande.
Quell’anno però stava per cambiare le cose. La Corte di Cassazione aveva appena emesso il verdetto definitivo, sancendo di fatto altri quindici anni di carcere per mio fratello senza attenuanti né riduzioni di pena.
Mia mamma, dopo essersi confessata anticipatamente più volte, aveva comprato il solito, gustoso pandoro, farcendolo però con una robusta lima adatta a segare anche le sbarre più testarde.
Solito giorno, solita ora, solito regalo, le guardie non le avevano fatto storie.
Il consueto bigliettino all’esterno, ma dentro una scritta nuova:”Attento a mangiarne una fetta per volta, perché dentro c’è una bella sorpresa! A presto, bimbo mio!”.
Quella sera Guido apriva come al solito la carta nell’indifferenza generale, ma i suoi occhi vispi già sognavano l’evasione notturna, l’aria aperta, la libertà.
“Eh no, cara mamma, questa volta non mi dovrò centellinare le fette. Per il sei gennaio sarò già in Sud America”, e mentre pensava ciò addentava la prima fetta.

Aveva aperto gli occhi il pomeriggio seguente, sdraiato in un letto dell’ospedale interno del carcere, circondato da tutti noi convocati d’urgenza dal direttore per le condizioni di Guido che nella notte si erano fatte improvvisamente critiche.
“Ma cos’è successo? Cosa ti ha impedito di scappare?”, aveva chiesto mia mamma distrutta dall’aver commesso un peccato mortale, per giunta inutile.
“Sai quel pandoro che mi hai portato…”.
“Certo, ma cosa c’entra? A proposito, era buono come al solito?”.
“Si, molto buono, ma devo dirti in verità che dopo un po’ stomaca”.
“E tutto questo cos’ha a che fare con l’ospedale?… Ma scusa, ma quanto te ne sei mangiato?”.

“Tutto!”.

Il Pandoro di Guido - Capitolo 4

Il Pandoro di Guido
Capitolo 4


Si avvicinava il periodo natalizio, il più amato da dei ghiottoni come noi, e come ogni anno in questo periodo ci trovavamo di fronte all’arduo dilemma delle scelte strategiche. Conoscete la pasticceria di Matilde Vicenzi, oggi probabilmente il marchio italiano più diffuso al mondo nel capo dei dolciumi? Bene, la signora Vicenzi, classe 1934, era compagna di scuola di mia mamma. Le due erano molto amiche, tra loro c’era una simpatia epidermica, e nulla importava ad entrambe del difetto fisico della piccola Matilde. Era nata con una gamba più corta di diversi centimetri a causa pare di una malformazione congenita, e né lo sviluppo né i numerosi luminari che negli anni l’avevano visitata erano riusciti a fare qualcosa.
Mia mamma però la trovava molto simpatica e trascorreva volentieri con lei il tempo, ed anche se non poteva quindi giocare a palla con le altre amichette era comunque soddisfatta della situazione.
Spesso la andava a trovare anche nel pomeriggio, trascorrendo interminabili ore con i mille giocattoli che la piccola, ricca e sfortunata aveva a disposizione.
I suoi genitori, ricchissimi imprenditori del nord, provavano sincera gratitudine per mia mamma, che ovviamente non si rendeva conto di fare nulla di speciale. Almeno due volte alla settimana pregavano mia nonna di lasciarla a cena da loro, e vi lascio immaginare quale fosse il menù.
Crescendo poi le loro strade si erano separate e mia madre aveva messo su famiglia, sposando un umile ed intelligente ragioniere delle colline romagnole e si era stabilita nel vecchio casolare di famiglia ristrutturato con tre figli da crescere.
Aveva già quarantadue anni quando un notaio del quale ignorava l’esistenza l’aveva convocata urgentemente a Milano per la lettura di un lascito testamentario. Per quanto si sforzasse non le venivano in mente parenti, vicini o lontani, che potessero avere pensato a lei, ma per puro senso del dovere aveva comunque onorato l’impegno.
“Lascio la mia azienda, la Matilde Vicenzi srl, alla signora Maria Angela Mulazzani, l’unica mia vera, grande amica”.
Una volta ripresasi dallo svenimento mia mamma aveva scoperto che l’amichetta di scuola, che non vedeva da più di trent’anni, aveva coltivato la passione per la pasticceria, complice il difetto fisico che le aveva impedito di gironzolare tutto il giorno come gli altri coetanei, e con il robusto aiuto dei ricchi genitori aveva nel tempo costruito un impero di dolcezza.
Ovviamente, mio babbo aveva immediatamente lasciato il posto da ragioniere che da quindici anni occupava e noi figli eravamo stati subito introdotti nell’attività, il maggiore con tanto di master in marketing alla Bocconi e noi a farci le ossa sul campo.
“L’anno scorso non è andata granchè bene…”, esordiva quella sera mia mamma, “…la colomba fuori stagione non è andata secondo le aspettative e ne abbiamo venduti solo otto milioni di esemplari. Se toppiamo anche quest’anno dovremo rivendere la Corsica ai francesi, mannaggia a loro!”.
Serviva un’idea vincente, non necessariamente innovativa, ma comunque accattivante.
“Perché non rivisitiamo un classico; lo fanno tanti cantanti e vedo che vendono dischi a palate!”.
Il piccolo Boss, diciassette anni ma la mente fina, aveva lanciato questo interessante dardo, e spremendoci le meningi eravamo arrivati a focalizzare l’attenzione su un mega-pandoro formato famiglia, un sacchettone da cinque chili di burro e buone intenzioni.
Superato il problema di adattare i macchinari alle nuove esigenze produttive, cosa che si era rivelata semplice in quanto sotto il governo Berlusconi avevamo ottenuto due milioni di euro di finanziamento a fondo perduto come sostegno di aziende in crisi (seicento dipendenti, contabilità creativa e quattro isole di proprietà sparse per il pianeta), serviva un tester, cioè un degustatore dal palato fine che facesse da apri-pista sui gusti degli italiani.
“Ci penso io!”, sbotta il dottor Guido fresco di stage alla Kraft spa.
“Prenditi il tempo che ti serve, non mangiare nulla nell’ora che precede la degustazione e domani mattina ci dici che ne pensi. Il futuro dell’azienda è nelle tue papille gustative”.
Alle prime luci dell’alba mia mamma, già in piedi per l’impazienza del verdetto, cominciava a girare per casa in cerca del figlio maggiore. Più si avvicinava alla cucina, più sentiva forte e terrorizzante un rumore che poco aveva di naturale; era un rantolo, un sofferto respiro, o qualcosa di simile.
Improvvisamente, dietro la tavola appoggiato al frigorifero spuntava la sagoma di Guido, visibilmente provato ed impossibilitato ad alzarsi.
La mamma, preoccupatissima, gli si era avvicinata con aria colpevole. “Cosa ti è successo, stai male?”.
“Non lo so. L’unica cosa di diverso dal solito è che questa notte ho testato il mega-pandoro”.
“Madonna santa! Se ti ha ridotto così devo aver combinato un disastro d’impasto! Scusami tanto, piccolo mio. Adesso vado subito a bloccarne la produzione prima di ammalare l’intera popolazione italiana”.
Con uno sforzo sovrumano il fratellone l’aveva bloccata, dicendo che secondo la sua esperienza (tanta) il pandoro non aveva nulla di sbagliato né di nocivo, a parte il fatto di stomacare un pochino.
“In che senso? Quanto stomaca? Quanto te ne sei mangiato?”.

“Come, l’hai mangiato tutto?!”.

Il Pandoro di Guido - Capitolo 3

Il Pandoro di Guido
Capitolo 3


“Dai, ragazzi, sbrigatevi che sta per arrivare!”.
Mia madre era sempre così agitata quando Guido tornava a trovarci.
La nostra famiglia è sempre stata unita ed i figli sono rimasti a vivere nelle immediate vicinanze dei genitori. D’altra parte i nostri mestieri ce lo consentivano. Io mi occupavo di internet, segnatamente della gestione di un portale per disperati che stanchi dell’Italia e dei suoi ritmi frenetici cercavano il modo di mollare tutto. Era da anni che la storia si espandeva e le continue e pressanti richieste del mercato mi avevano costretto ad allargare gli orizzonti, perdendo la specializzazione esterofila fino a diventare una sorta di “trova-tutto”. I contatti aumentavano ed in breve mi ero trovato a dover mettere a disposizione anche di altri stati il mio portale, con la conseguenza di dover necessariamente cambiare nome. Un nome breve, neutro e ficcante: Google!
Il Boss invece era diventato un pezzo grosso della sua banca, nel senso che era ingrassato talmente tanto che non passava quasi più dalle strette porte del metal detector. Alla Homer Simpson aveva cercato di fregare il sistema, inciccionendosi fino al punto di guadagnare l’opportunità (prevista dal contratto nazionale di categoria) di lavorare da casa, con grande sollievo di mia mamma che così aveva sempre il suo cucciolino a due passi.
I miei genitori erano ormai in pensione e, come tutti, gioivano dei successi dei figli. Le loro esigenze finanziarie non erano spropositate e, oltre ad un discreto gruzzoletto accantonato negli anni di lavoro, percepivano quattro pensioni. A parte le due di vecchiaia che spettano ad ogni cittadino mia madre aveva trovato il modo tramite un cugino alla lontana (nel senso che è napoletano) di risultare vedova di guerra, ricevendo dallo Stato la gratitudine sotto forma di reversibilità pari a 1.500 euro mensili, mentre mio babbo, oltre ai continui scongiuri, incassava regolarmente un assegno mensile come pensione di invalidità per ciechi (curioso, dato che ha sempre fatto il tranviere).
Quella sera eravamo tutti riuniti in attesa del ritorno del figliol prodigo, che una volta ogni tre, quattro mesi trascorreva un week end in famiglia. Erano invece passati quasi otto mesi dal nostro ultimo incontro, a causa dei suoi improvvisi e pressanti impegni professionali.
Guido infatti era il classico cervellone che fin da piccolo aveva mostrato attitudini superiori alla norma: a ventidue anni si era laureato a pieni voti in astrofisica, a ventiquattro in geologia, e solo per un vezzo non aveva conseguito la terza laurea in scienze naturali per la quale gli sarebbe bastato un solo esame aggiunto. Da ormai otto anni era a capo del CNR, il Centro Nazionale di Ricerca, e negli ultimi mesi aveva girato il mondo portando una sua nuova ricerca sulla prevenzione delle eruzioni vulcaniche. Concettualmente il ragionamento era molto difficile, ma lui aveva studiato un espediente che gli consentiva di mostrare in pratica ciò che accade quando un evento naturale così particolare accade, cosa che favoriva notevolmente l’interazione con i suoi ascoltatori. Lo studio, effettuato quasi esclusivamente alle pendici dell’Etna, sembrava poter aprire nuove frontiere fino ad allora inesplorate. L’espediente in questione era un pandoro farcito, simile nella forma e, secondo lui, anche nella reazione alle sollecitazioni. Davanti ad una platea curiosa e stupefatta infatti Guido usava appoggiare sul tavolo il pandoro, sezionarlo con un coltellaccio da cucina e mostrare l’inevitabile fuoriuscita della farcitura lavica, ma non già in maniera esplosiva ed imprevedibile ma seguendo l’apertura creata dal taglio. A ciò aggiungeva che le rocce che costituiscono i vulcani sono solitamente sedimentarie e molto porose, cosa che consentirebbe di siringare il cono ed iniettare sostanze ad elevato potere stabilizzante per evitare l’eruzione potenziale.
Per confermare l’atossicità delle sostanze usate era solito fare farcire da un amico pasticcere il pandoro con abbondante salsa di RT-2, color nocciola, e mangiarsi davanti alla platea la prima fetta con inevitabili “oh!” dei presenti. Invitava poi chiunque lo desiderasse a servirsi liberamente, e spesso il naturale imbarazzo ed una certa diffidenza venivano superati dalla golosità e dalla curiosità.
Tra le tante domande che quella sera a cena gli ponevamo molte erano inevitabilmente legate a queste originali conventions, e Guido con grande generosità di particolari ci descriveva quella di Stoccolma, quella di Tokyo, quella di Denver,…
Particolare risalto aveva dato però alla memorabile giornata di Bruxelles, quando alla sua solita prima degustazione il pubblico aveva reagito con imprevista freddezza, cosa che lo aveva costretto ad un secondo assaggio.
La mamma allora l’aveva interrotto, e con la consueta curiosità femminile gli aveva chiesto:”Ma che sapore ha quel pandoro farcito con quella robaccia?”.
“Sembra un pandoro alla crema di nocciola, né più né meno. Se non sapessi come è stato preparato non lo distingueresti da uno tradizionale”.
“Quindi è buono. E non hai notato altro, magari delle conseguenze a lungo andare?”.
“Tornando a quella giornata, l’unico problema è che, benché assolutamente gustoso, ho notato che dopo un po’ quel pandoro stomaca. Sai, la gente continuava a non assaggiarne, ed io dovevo a tutti i costi dimostrare loro che non c’era nulla da temere…”.
Se lo era mangiato tutto!

Il Pandoro di Guido - Capitolo 2

Il Pandoro di Guido
Capitolo 2


In famiglia ognuno aveva sempre fatto la propria parte per garantire armonia e spirito collaborativi.
Eravamo in cinque, senza contare gli acquisiti (mogli, cugini,…) compatibilmente con le esigenze e gli obiettivi di tutti cercavamo di mantenere la stessa mentalità, che trovava anche riscontro negli aspetti più pratici: una serie di villette a schiera per il dopo-lavoro ferroviario e l’aziendina di famiglia gestita da noi.
Mia madre era la titolare ed unica intestataria di muri e licenza d’esercizio (e poi dicono che l’Italia è un paese maschilista!), mentre a noi spettavano solamente ruoli operativi con inquadramento da dipendenti. Lo stipendio però era più che dignitoso e l’impegno profuso davvero ragionevole, ribadendo poi la felicità di poter lavorare tutti insieme appassionatamente.
D’altra parte fino a pochi anni fa la gestione di una sala cinematografica era molto lucrativa, gli adempimenti burocratici e fiscali estremamente ridotti e le ore di servizio a livello di dipendenti comunali.
Ci avvicinavamo al Natale, periodo storicamente molto favorevole per l’attività che, complici il brutto tempo, le temperature rigide e l’arrivo della produzione tipica di questo periodo lasciavano presagire i consueti buoni profitti. Ai soliti titoli dei restanti undici mesi dell’anno si sostituivano pellicole quasi monotematiche:”Babbo Natale si tromba la Befana”, “A mia zia per Natale facciamo del male!”, “Aprimi ‘sto pacco!” sono solo alcuni dei campioni d’incasso del mese di dicembre, cui si vanno ad aggiungere i sempreverdi che non stancano mai.
Già, perché se non si era capito la mia famiglia gestiva un cinema porno.
La mamma stava alla cassa e distribuiva bibite e pop corn agli impazienti clienti che, avvolti nei loro bravi spolverini e coperti dall’immancabile cappello a tesa larga a garanzia dell’anonimato fremevano rumoreggiando.
Il papà, finito di strappare i biglietti all’ingresso in sala, sganciava le tende scure ed isolanti e si trasformava in un nano-secondo nella preziosa maschera, mai utile come in un cinema porno nel quale, si sa, le luci sono soffusissime anche a film ancora non iniziato.
Noi fratelli ci alternavamo tra la cabina di riproduzione del nastro e la necessaria attività di volantinaggio ed affissione di locandine in giro per il paese.
Quella settimana però ero rimasto solo, in quanto il Boss, il fratello minore, era negli Stati Uniti a nome della Villa’s, nota casa di produzione di pellicole a luci rosse di nostra proprietà, per promuovere la nostra ultima fatica- letteralmente- in occasione dell’annuale festival del cinema hard. Seguendo la filosofia del chi fa da sé fa per tre le nostre signore, giovani e portate, recitavano da protagoniste ormai da anni, andando molto orgogliose del successo di pubblico e critica ormai consolidato. “Fammela come un secchio!”, il film in questione, sembrava promettere bene e le prospettive anche nel mercato nord americano ancor meglio.
Guido invece era trattenuto a letto dal solito attacco di dissenteria, ormai abbondantemente diagnosticato dai maggiori luminari in materia come un chiaro caso di malattia psico-somatica. Ogni volta che uscivamo con un nuovo film si rosicava il fegato, non accettando il fatto che migliaia di persone avrebbero visto sua moglie esibirsi in contorsionismi sessuali degni di una circense.
Mia mamma (si sa, la mamma è sempre la mamma) non poteva fare a meno di preoccuparsi, e come la saggezza popolare insegna quando ci si sente un po’ giù non c’è nulla di meglio che coccolarsi un po’ ingozzandosi di dolci; la serotonina farà poi il suo dovere.
Alle due del pomeriggio, prima di recarsi al lavoro, passava quindi dalla stanza da letto di Guido per sincerarsi delle sue condizioni e di eventuali necessità urgenti. “Allora, ti ho portato una camomilla calda che è un ottimo antispastico, la febbre ho visto che non l’hai, il cellulare è sul tuo comodino così in caso di bisogno mi chiami. Cos’altro?… Già, è arrivato il solito pacco natalizio della signora Aurora, quella gentile vecchietta che abbiamo conosciuto tanti anni fa al mare. E’ in cucina e se ti viene fame aprilo pure. Vedrai che non si sarà dimenticata di regalarci il solito super-pandoro mega-farcito, la vostra passione!”. Detto ciò se ne andava più rassicurata e pronta per il duro lavoro.
Verso le undici tutti di ritorno (era un mercoledì ed era in programma solo una visione), in tempo per una buona tisana prima di andare a nanna.
In cucina la scena era desolante: il pacco spalancato e cartine di cioccolatini e torroncini sparse per il pavimento, montagne di stelle filanti srotolate ed una confezione di datteri mangiata per metà.
“Vai su a vedere come sta”, diceva il babbo alla mamma.

“Ehi, Ghigni, come ti senti?”. Sviluppandosi dalle coperte la creatura emergeva, accompagnata da un sonoro rutto digestivo, e la tranquillizzava confermandole di essere andato in bagno solo tre volte e di avere anche avuto appetito.
“Bene. Per caso hai aperto tu la confezione della signora Aurora?”.
“Si, in frigo non ho trovato niente e mi sono arrangiato così”.
“Hai fatto bene, anche se le cose dolci con la tua diarrea mal si conciliano. Comunque, hai tirato fuori il pandoro dal pacco che non l’ho trovato?”.
“Scusa mamma, ma avevo un buco nello stomaco e l’ho mangiato”.
Con una carezza gli faceva capire di essere vicino al suo dolore interiore. “Che ne pensi?”.
“Devo dire che, rispetto al passato, mi ha un po’ deluso. Buono è sempre buono, e si sente che non è solito pandoro comprato al supermercato, ma dopo un po’ stomaca”.

Se lo era mangiato tutto!

Il Pandoro di Guido - Capitolo 1

Il Pandoro di Guido
Capitolo 1

Correva l’anno 1995 , era dicembre inoltrato ed il solito strato di gelo era calato anche in Romagna, la terra del sole. Guido, fresco come una rosa dopo le dieci ore quotidiane trascorse nella cucina del ristorante presso il quale lavorava da tanto tempo si accingeva a tornare a casa, un piccolo ma confortevole appartamento a Bellaria che condivideva con la sua allora compagna Sabrina.
Non prima, immancabilmente, della consueta capatina in palestra giusto per sollevare qualche tonnellata metallica che non fa mai male.
Già perché il nostro eroe aveva vivi trascorsi da atleta semi-professionista di body building, arrivando fino al secondo posto nel campionato nazionale esordienti nella categoria dei pesi massimi (e dove sennò).
Se qualcuno di voi ha lavorato in cucina ed ha conosciuto qualche culturista convinto riconoscerà facilmente queste peculiarità. Uno chef non ha mai appetito, quantomeno sul posto di lavoro, un po’ a causa della tensione che i ritmi del servizio impongono, un po’ per la comprensibile nausea che maneggiare continuamente gli alimenti genera. Tutto ciò fa stridente contrasto con l’altra sua personalità, quella del pesista, che per esigenze astruse di cali di zuccheri e fantomatici ragionamenti sulla curva glicemica è portato a trangugiare con voracità ogni genere di schifezza, salvo poi nei giorni precedenti alla gara seguire un’astinenza pressoché totale.
Guido e Sabrina più che amanti erano coinquilini, e non perché non c’era affetto tra loro ma semplicemente a causa dell’incompatibilità dei rispettivi orari lavorativi. Lui via dalla mattina presto per il doppio turno al ristorante, dal quale faceva rientro non prima delle ventitre. Lei a quell’ora aveva ancora i bioritmi un po’ addormentati, e terminata la cena-colazione si apprestava a prendere servizio in uno dei gloriosi pub della riviera, non rientrando a casa prima delle sei del mattino.
Facendo un rapido calcolo quindi le occasioni d’incontro erano davvero poche, limitate per giunta a pochi minuti ciascuna, ma forse proprio questo era il segreto della loro stabile relazione.
Quella sera Guido, rincasato con la solita puntualità, era riuscito addirittura a mangiucchiare qualcosa con Sabrina ed a scambiare quattro chiacchiere; nulla di profondo, le solite domande sulla giornata appena trascorsa e sui progetti delle future ferie.
“Amore, io devo scappare al lavoro, ma ti ho lasciato nella credenza un pandoro che ho comprato oggi al supermercato. E’ uno di quelli grandissimi, burrosi, che fanno ingrassare solo a guardarli. Assaggialo e dimmi che ne pensi, che tra poco dovrò fare la scorta per Natale”.
Qualche minuto per sistemare i panni sporchi che la cucina inevitabilmente lascia, una rapida doccia fatta sempre malvolentieri (non è un amante dell’acqua) e le solite orette riposanti in compagnia della fidata televisione.
Guido aveva un indicatore di rilassamento infallibile: quando aveva totalmente eliminato le scorie fisiche e mentali della giornata lavorativa gli veniva fame, ma non il solito appetito che ogni sei ore prova qualsiasi essere umano, ma un atavico buco nello stomaco che necessitava riempire. E cominciava la razzia, al termine della quale, sazio e felice, prendeva congedo dal mondo per qualche ore di sonno ristoratore.
L’indomani mattina il rituale si compiva nella solita maniera, e mentre Sabrina faceva una meritata doccia per eliminare i fumi e gli odori del locale Guido preparava un corposo caffè, robusto ed aromatico, e la attendeva pazientemente seduto al tavolo della cucina.
“Allora, dimmi un po’, l’hai sentito il pandoro?”, domandava lei in trepidante attesa.
“Certo, come da tuoi ordini”, rispondeva lui in tono simil-militaresco, un retaggio dei tempi andati da paracadutista nella Folgore.
“E che ne pensi?”.
Qualche attimo di silenzio e concentrazione…
“Buono è buono, solo che dopo un po’ stomaca”.
Quando uno chef sentenzia sul cibo è legge per tutti, e così i due si lasciavano con un bacio augurandosi le rispettive felicità giornaliere.
Prima di andare a dormire però Sabrina doveva fare ancora qualcosa; sentiva un moto di rimorso e voleva verificare personalmente la reale qualità di quel pandoro. Accompagnata dal sesto senso che contraddistingue tutte le donne si avvicinava quindi alla credenza, speranzosa che le sensazioni negative non trovassero riscontro nella realtà.

“Sfido io che dopo un po’ ti ha stomacato…”, pensava tra sé e sé, “…te lo sei mangiato tutto!”.

venerdì, aprile 13, 2007