lunedì, aprile 23, 2007

Il Pandoro di Guido - Capitolo 6

Il Pandoro di Guido
Capitolo 6


Eravamo appena arrivati a Lucca, città da noi molto amata e nella quale tornavamo almeno una volta all’anno dal 1979. La nostra famiglia, di tradizione circense, aveva imparato a vivere in un super-caravan, una sorta di villa ambulante con ogni confort.
Mia mamma, nata con la passione ed il fisico da contorsionista ma ormai degna solo di interpretare una credibile donna cannone, teneva le redini del baraccone.
Erano ormai passati dieci anni dalla separazione professionale da “Il circo di Moira Orfei”, causata non già da divergenze organizzative ma da una tragedia. Le cose andavano da Dio ed eravamo ai tempi (e penso ancor oggi) l’unico circo itinerante in grado di mostrare lo spettacolo del domatore di belve feroci. Noi usavamo le tigri asiatiche albine, la cui pigmentazione rendeva già di per se lo spettacolo unico, senza tralasciare le incredibili capacità ed il sangue freddo di mio padre. Massimo il magnifico infatti era un nome notissimo nell’ambiente, e solo l’anno prima aveva avuto l’onore di esibirsi all’interno della Piazza del Cremino.
Il numero era ormai consolidato e la sua esperienza tale da fare spesso sottovalutare la pericolosità insita sempre e comunque. Le belve erano selezionate da lui stesso in mezzo ad un numero elevatissimo di animali, ed il fatto di ammaestrarle fin da cuccioli forniva un ulteriore elemento di serenità.
Ma sempre belve rimangono.
Quella sera avevamo il tendone pieno come in poche altre occasioni, il pubblico lucchese ci aspettava da mesi e non aveva tradito le aspettative. Prima i pagliacci, poi eravamo entrati Guido ed io per il numero dei trapezisti, infine il Boss per il terrorizzante show dell’uomo-scimmione.
Mancava quindi solo il numero di chiusura, il pezzo forte che tutti i circhi del mondo c’invidiavano. Mio padre era troppo carico e quella sera senza alcun preavviso si era deciso a tentare un numero nuovo ed ancor più incredibile: infilare la sua testa tra le fauci delle belve. Non solo lui non era preparato, ma soprattutto le tigri non erano state addestrate a farlo, ma il suo sangue freddo e la passione smisurata per il suo lavoro lo avevano trascinato.
Purtroppo era accaduto il peggio.
Da quel giorno ci eravamo persi di vista, incapaci di continuare in un mestiere che ci aveva tolto tanto.
Mia mamma si era data all’alcool (credo che per questa ragione fosse ingrassata tanto) cercando così di dimenticare. Invano.
Guido aveva seguito un amico in un progetto d’infanzia ed aveva aperto un ristorante in cui servivano solo clientela mancina: apparecchiatura invertita, posate su misura, brocche personalizzate. L’attività fruttava molto, anche perché i destri amanti del rischio sfidavano la sorte, e se smascherati venivano sonoramente randellati dallo chef in persona.
Il Boss invece era rimasto diciamo così nel ramo. Con lo pseudonimo di Bango l’orango era diventato campione italiano di wrestling, e da anni aveva tentato con successo la via del professionismo emigrando negli Stati Uniti, dove la lotta libera è religione.
Terribilmente scosso dal lutto familiare io mi ero invece iscritto alla facoltà di psicologia a Bologna, laureandomi brillantemente ed in breve tempo ed esercitando quasi subito. Nel mio studio, aperto a tutti e con prezzi popolari, privilegiavo l’educazione infantile. Famose le mie ricerche e pubblicazioni, culminate con il saggio titolato “A caval donato non si guarda in bocca,… figurati alla tigre!”, che avevano fatto il giro del mondo.
Un mese prima di quel fatidico giorno tutti noi,ognuno all’oscuro degli altri, avevamo ricevuto un bigliettino da Moira che ci convocava per il giorno e l’ora x a Lucca per un fantomatico rimborso di una misteriosa assicurazione sulla vita stipulata in gran segreto da mio babbo e stranamente liquidata dopo esattamente dieci anni dalla sua scomparsa.

“Sono contenta di ritrovarvi tutti insieme, spero di non avere fatto un torto a nessuno”.
Eravamo emozionantissimi e felici di ritrovarci,anche perché è solo per pudore che non avevamo trovato il coraggio per fare ciò che aveva fatto lei.
“Massimo è ancora nei nostri cuori, ed ancor più nella memoria del nostro affezionato pubblico. Regaliamo loro una serata speciale in ricordo del grande domatore!”.
Detto, fatto.
Certo non eravamo più in forma ed atletici come un tempo, ma la folla ci era comunque vicina e l’impegna che avevamo profuso era comunque altissimo.
Si poneva però il problema del numero di chiusura, ed avevamo escogitato un espediente efficace e divertente.
“Signore e signori, tra breve il momento che tutti quanti aspettavate: le belve del circo. Vi prego di considerare che le nostre amate tigri sono ormai vecchierelle, il tempo passa anche per loro, e non possiamo più infilarci dentro con la testa; sono ormai sdentate e rischierebbero di soffocare in caso di morso. Per mantenere la spettacolarità l’abbiamo sostituita con un pandoro, un morbidissimo pandoro che di questi tempi campeggia sulle vostre tavole”.
Le tigri però sono diabetiche e necessitava scoprire prima se ne esisteva uno adatto alle nostre esigenze. La mamma allora la mattina precedente lo spettacolo ne aveva comprati nove, uno per marca, ed aveva pregato Guido di assaggiarli in qualità di esperto e consigliarle quale utilizzare.
Alla mattina ci eravamo ritrovati tutti per colazione e con buon appetito, tranne Guido che ogni quattro secondi emetteva squassanti rutti.
“Accidenti, cerchi di imitare il ruggito delle belve? Complimenti, ti riesce bene!”.
“Ma no, mamma, è che ho fatto quel test che mi avevi chiesto tu”.
“Allora, che ne pensi?”.
“Motta ottimo, Paluani così così, ma il solito Conad è sempre il migliore. Peccato però che dopo un po’ stomachi”.
“Scusa, eh, ma quanto ne hai mangiato?”.
“Ma sai, era proprio buono, una fetta tira l’altra, ed alla fine l’ho mangiato tutto!”.

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